#freschidistampalibooks sett_38-2

Michela Marzano, Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa, Rizzoli

Ci sono stati periodi in cui Anna ci ha creduto, alla parità. Quella che va oltre le apparenze, “che premia indipendentemente dal genere, quella cui non interessa se sei truccata e come c’hai le gambe, e mette sullo stesso piano maschi e femmine”. Poi, però, come molte bambine e ragazze, puntualmente precipitava in quel bisogno, sempre lo stesso: essere vista, sentirsi preziosa. E, di fronte agli sguardi, alle mani, alle parole degli uomini, non riusciva a fare altro che cedere – spazio, voce, pezzi di sé. Abdicare al proprio corpo fino a sparire: come quella volta sul palco, lei che sognava di fare l’attrice e non riusciva a muovere un muscolo, divisa tra il desiderio di mostrarsi e il terrore di farlo davvero. Anche adesso, che lavora in radio e insegna in un master di giornalismo, l’istinto di ritrarsi per compiacere non l’abbandona mai del tutto. Poi, con i suoi studenti, si trova a discutere l’eredità del #MeToo a cinque anni dalla sua esplosione: da una parte loro, ventenni che scoprono la sessualità, dall’altra lei che ripensa al passato, a tutte le volte che ha ceduto. Quante sfumature diamo alla parola “consenso”? Quando possiamo essere sicuri che un “sì” non nasconda un’esitazione? Anna cerca colpevoli, ma non è sicura di potersi definire una vittima. Avrà bisogno di perdonare se stessa, guardandosi dentro con coraggio e onestà, per riuscire ad accettarsi e ad andare avanti. Michela Marzano invita lettori e lettrici a ragionare insieme con la curiosità e l’intelligenza che contraddistinguono la sua scrittura, in un romanzo che riflette sulle zone grigie e sull’ambiguità del rapporto che abbiamo con gli altri e con il nostro corpo.

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Jón Kalman Stefánsson, Quando i diavoli si svegliano dèi. Testo islandese a fronte, Iperborea

«Mentre bevo un caffè caldo, nero, / rovesci di ghiaccio sferzano la finestra, / un gattino di sei mesi sonnecchia mordendo / la mano di chi scrive queste righe, / e una cagna di nove anni dorme, / acciambellata ai suoi piedi, / grata per la vita.» Protagonista di questa raccolta in versi di Jón Kalman Stefánsson è la quotidianità, vissuta in una stanza ai confini del mondo, a Reykjavík, con le incombenze da gestire, il chiasso dei vicini, i fiordi in lontananza e le montagne che non possono fare altro che brillare di neve. Ma anche in questo angolo appartato e all’apparenza protetto irrompe il dolore, sotto forma delle grandi tragedie del nostro tempo: i ghiacciai che si sciolgono, i mari punteggiati di plastica, i naufragi al largo della Sicilia, un attentato terroristico, il campo profughi di Lesbo. In un mondo che cambia e spaventa, pronto a inghiottire anche il microcosmo islandese, le poesie sono «notizie dalla vita» che la morte non può sconfiggere. E se i piedi del poeta sono ben piantati nella realtà, il suo sguardo la trascende, è rivolto all’amore, all’infinito e all’eterno. È in quella fessura tra la ragione e il sogno che la poesia sa guardare, anche quando ha gli occhi ormai ciechi di Borges. È lì che basta un disco di Nina Simone perché da un comune appartamento di città si apra una finestra sull’assoluto. Dopo decenni da romanziere, Stefánsson ritorna al primo amore, la scrittura in versi, con piccoli distillati di humour ed epifanie sull’arte e l’esistenza in cui echeggiano i suoi miti, dai Beatles a Tom Waits fino a Wisława Szymborska.

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Viola Ardone, Grande meraviglia, Einaudi

«L’amore è incomprensibile, una forma di pazzia». Nel candore dello sguardo di Elba il manicomio diventa un luogo buffo e terribile, come la vita, che Viola Ardone sa narrare nella sua ferocia e bellezza. Dopo “Il treno dei bambini” e “Oliva Denaro”, “Grande meraviglia” completa un’ideale trilogia del Novecento. In questo romanzo di formazione, il legame di una ragazzina con l’uomo che decide di liberarla rivela il bisogno tutto umano di essere riconosciuti dall’altro, per sentire di esistere. Elba ha il nome di un fiume del Nord: è stata sua madre a sceglierlo. Prima vivevano insieme, in un posto che lei chiama il mezzomondo e che in realtà è un manicomio. Poi la madre è scomparsa e a lei non è rimasto che crescere, compilando il suo “Diario dei malanni di mente”, e raccontando alle nuove arrivate in reparto dei medici Colavolpe e Lampadina, dell’infermiera Gillette e di Nana la cana. Del suo universo, insomma, il solo che conosce. Almeno finché un giovane psichiatra, Fausto Meraviglia, non si ficca in testa di tirarla fuori dal manicomio, anzi di eliminarli proprio, i manicomi; del resto, è quel che prevede la legge Basaglia, approvata pochi anni prima. Il dottor Meraviglia porta Elba ad abitare in casa sua, come una figlia: l’unica che ha scelto, e grazie alla quale lui, che mai è stato un buon padre, impara il peso e la forza della paternità. Con la sua scrittura intensa, originale, piena di musica, Viola Ardone racconta che l’amore degli altri non dipende mai solo da noi. È questo il suo mistero, ma anche il suo prodigio.

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